Barone: un disco di vita e di suoni preziosi


Si intitola “Reborn” il disco di Andrea Barone, compositore, autore… lavoro che attinge a piene mani da quel certo modo di concepire il pop internazionale e forse su tutti menzioniamo i dischi degli Alan Parson Project così come certe volute leggere di Brian Eno o quel certo modo di essere “popolari” dentro le stringhe meno visionarie dei Genesis. C’è tanto da citare e di certo Barone non si tira indietro in luogo di una personalità che forse in tal senso un poco paga pegno ma che ci prova a dire la sua dentro un dizionario ricco di storia e di grandi dischi. “Reborn” è un disco di vita e va vissuto da vicino e con immersione… dentro “Reborn” forse c’è la rinascita di ognuno.

Un lavoro collettivo. Mi incuriosisce la scelta delle 11 voci che hai chiamato nel disco. Come le hai selezionate?
Alcuni cantanti, come diversi di quelli coinvolti nel brano collettivo Forever free, erano amici con cui avevo già collaborato in passato. Altri li ho scelti cercando materiale in giro su internet, come ad esempio Rossana Falzarano per Proud, o ascoltando materiale consigliato da amici, come nel caso di Giuseppe Capaccio che canta il brano di apertura del disco The colour of the rain. Altre voci infine mi sono state suggerite da Enzo Siani, fonico del Trees Music Studio, dove l’album è stato registrato e missato, ed erano cantanti che già collaboravano o avevano collaborato con lo studio. È il caso ad esempio di Ario Avecone, cantante e autore di musical, che interpreta la rock ballad Say goodbye, e di Emanuele Durante, bravo cantautore, che canta il singolo dell’album Feel the wind.

E in qualche modo la loro timbrica, la loro interpretazione… hanno rivestito il brano anche di nuovi significati?
In qualche caso sì. Le melodie erano già scritte e definite, ma ho accolto spesso suggerimenti o varianti che arrivavano dai cantanti, come ad esempio nelle title track Reborn, cantata da Frank Ranieri, di cui è uscito il lyric video qualche giorno fa. Emanuele Durante ha dato un’impronta molto intensa e dolce a Feel the wind. Mariana Somma in Forever Free ha improvvisato su una parte intermedia etnica, con risultati che ho apprezzato davvero molto. Poi sia lei che Carla Genovese (bravissima interprete anche della quarta traccia, What we got) e Margot Durante, nel finale del brano, con l’aiuto di Alessandro Tino, cantante e direttore di coro, e degli altri cantanti coinvolti, hanno reso i ritornelli finali quasi gospel, un po’ sull’esempio di We are the world, come era poi nelle mie intenzioni, visto anche il tipo di videoclip che ne è venuto fuori. Il brano è diventato un inno alla libertà. 

Un disco come questo che sembra raccogliere una vita, fare un punto, tirare delle somme, quanto ha rimodulato il tuo modo di pensare oggi alla musica?
Lo ha rimodulato credo abbastanza, perché per me si è trattato dell’apertura di un capitolo nuovo. Faccio l’insegnante di musica e il tastierista, ho suonato in varie formazioni. Con questo disco mi sono dedicato di più alla produzione e alla composizione e ho finalmente dato alla luce canzoni scritte da me, che forse per diversi anni ho trascurato. Spero sia quindi solo l’inizio di un percorso. In conservatorio ho studiato composizione, oltre a brani pop in passato ho composto vari brani strumentali/orchestrali, quindi mi piace molto la dimensione compositiva, a tratti più di quella legata alla performance e all’esecuzione, mi ci sento a mio agio. Mi piacerebbe scrivere per altri, ho già altri brani in cantiere, e spero di iniziare a lavorarci presto. 

E nella scena odierna, che dialogo è in grado di instaurare con le nuove generazioni tremendamente dedite al pop immediato?
Direi che parte delle nuove generazioni non è dedita neanche più al pop più immediato, ma va ancora oltre, verso la trap e simili. Non condanno il genere in sé, ma secondo me è un problema se diventa l’unico tipo di musica che si ascolta, visto l’enorme universo di bella musica esistente, a cui, tra l’altro, le nuove generazioni hanno facilmente accesso. Mi rendo conto che il mio progetto è un’operazione un po’ vintage, lontano dal rap/trap, dal pop moderno, ma anche da altri generi che oggi vanno forte, come l’indie e un certo tipo di cantautorato. Ma sono rimasto fedele a me stesso, e credo che anche se i generi si evolvono e cambiano, ci sarà sempre una parte di pubblico che ricercherà in una canzone quello che secondo me resta l’elemento più importante, ossia la bellezza della melodia, e l’emozione che questa può trasmettere. Questo è il fattore a cui ho cercato di dare più importanza nell’album, anche nei brani più tendenti al rock. È sempre da lì che parto quando scrivo i brani, dalla melodia, poi certamente bisogna darle il vestito giusto, costruire il tessuto ritmico/armonico, il testo e l’arrangiamento che la valorizzino al massimo.